L’Altipiano del Monte Calisio è stato da sempre un crocevia di popoli che dalla Valsugana e dal Lagorai raggiungevano la Valle dell’Adige. Le prime testimonianze della presenza dell’uomo nel territorio dell’Ecomuseo risalgono al Mesolitico (10.000 anni fa).
Gli insediamenti si sono diffusi lungo importanti vie di comunicazione nei pressi delle quali sono stati rinvenuti numerosi siti archeologici. Nel Medioevo centrale, l’era dei “canòpi”, furono costruiti numerosi castelli e chiese che punteggiano i piccoli borghi dell’Altipiano. Le tracce dei secoli più recenti si trovano nei molti palazzi storici dai bei portali in Rosso Ammonitico e nelle fortificazioni austroungariche, testimoni della Prima Guerra Mondiale.
Un’attività legata all’uso delle risorse naturali che nel passato ha avuto una notevole rilevanza economica è stata la produzione della calce, che avveniva in speciali fornaci chiamate calcàre.
Le calcàre erano diffusissime nelle zone del Trentino con roccia calcarea, perchè la calce era molto utilizzata. Nel territorio dell’Ecomuseo è documentata la presenza di calcàre fin da tempi antichi; ad esempio nella Carta di Regola di Meano del 1667 ben due capitoli sono dedicati a regolamentarne l’attività. Le ultime calcàre del Calisio furono attive fino attorno al 1930; la maggior parte di esse sono crollate e ormai “sepolte” dal bosco, ma ne rimangono alcune ben conservate, anche grazie a provvidenziali interventi di ripristino (ad es. le calcàre di Mongalina, Pra Maor e alle Gorghe di Vigo Meano.
Gli usi della calce erano vari, tanto che quasi ogni abitazione aveva la propria “buca della calce” :
– come legante per le murature e intonaci
– come disinfettante, per imbiancare le abitazioni e soprattutto le stalle
– sempre come disinfettante, nelle latrine
– come conservante, per le uova
Le calcàre erano situate soprattutto presso i boschi di latifoglie, che forniscono la legna migliore per il fuoco, e nei luoghi dove è più facile reperire i sassi di calcare, che è la materia prima necessaria. Assomigliano a torri cilindriche, del diametro di due/tre metri, un po’ ristrette verso l’alto. Sono poste perlopiù lungo le strade, per facilitare i trasporti, e spesso sono ricavate scavando in terreni in pendenza, in modo da essere in gran parte inglobate nel suolo. La costruzione è realizzata con blocchi di porfido, più duro rispetto al calcare, per evitare la fornace si “cuocia” alle altissime temperature raggiunte, sgretolandosi.
Per ogni ciclo di produzione, che avveniva preferibilmente a primavera, si utilizzava una gran quantità di sassi di calcare e di legna da ardere; per ogni quintale di calce serviva un’ugual quantità di fascine di legna.
Alla base della calcàra si lasciava un’apertura per inserire le fascine da ardere. Sopra una griglia di ferro, che serviva a permettere alla cenere di depositarsi e di essere tolta ogni mezzora circa, s’inserivano i sassi di càlcare da cuocere. Infine, con l’argilla, si sigillava l’apertura superiore e tutta la volta della calcàra, affinché non entrasse l’ossigeno e il calore non uscisse. Con le fascine, si alimentava il fuoco dal basso, mantenendo costante la temperatura che raggiungeva anche i 900 °C. Il fuoco doveva ardere giorno e notte per circa una settimana, secondo la quantità di sassi da cuocere.
Con la lunga cottura in assenza di ossigeno, il carbonato di calcio dei sassi si trasformava in ossido di calcio, ovvero in “calce viva”, estremamente caustica. Quando i sassi erano “cotti”, si aspettavano due/tre giorni. Poi gli uomini, protetti da pesanti guanti, con gran precauzione li toglievano dalla calcàra, li sbriciolavano e li scioglievano in acqua. Ecco la “calce spenta”, pronta all’uso.